Moritz Schlick, nel 1915, aveva già
dedicato alla teoria della relatività di Einstein (in quel caso alla relatività
ristretta) un breve, pionieristico saggio dal titolo Il significato filosofico del principio di relatività (recentemente
tradotto in italiano), apprezzatissimo dallo stesso Einstein. Due anni dopo,
nel 1917, darà alle stampe questo piccolo libro che è un vero capolavoro. Non
si tratta, è bene dirlo subito, di una esposizione divulgativa della teoria
della relatività (questa volta anche della relatività generale), bensì di una
lettura critica della teoria e di una sua interpretazione filosofica. Immagino
che, a questo punto, qualcuno storcerà il naso e allora preciso subito che
Schlick era l’indiscussa guida del Circolo neopositivista di Vienna, ma si era
addottorato in fisica nel 1904, sotto la guida di Max Planck. Aveva insomma una
solidissima preparazione scientifica. La sua idea di fondo è che la filosofia
non è un sapere particolare. L’elemento filosofico è insito in tutte le scienze
quale loro vera anima. Quando ci si occupa degli aspetti più generali di una
teoria scientifica, si fa necessariamente filosofia; poco importa se chi la fa
è ufficialmente un filosofo, oppure no. A condizione che abbia le competenze
necessarie (sia in ambito scientifico, sia in ambito filosofico). Con questo
spirito egli affronta la teoria della relatività. Attraverso una magistrale
esposizione della teoria, egli affronta alcuni importanti temi epistemologici:
quali ragioni ci inducono a scegliere una teoria piuttosto che un’altra se dal punto
di vista fisico si equivalgono (ad esempio la teoria di Lorentz e quella di
Einstein, almeno per quanto riguarda la relatività ristretta)? Che cosa vuole
dire che una teoria è superata da una più generale? Che rapporto c’è tra teoria
ed empiria? Da leggere e meditare.
Renato
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