La
vicenda è ambientata nell’estremo nord attorno alla metà dell’800, presso una
piccola comunità di Inuit (esquimesi). La vita degli uomini (questo è il
significato della parola Inuit) è dura, ogni giorno bisogna fare i conti con la natura inospitale e con i primitivi strumenti
disponibili. Tuttavia essa è cadenzata da ritmi e da riti secolari che consentono un armonioso sviluppo ed un
profondo rispetto delle altre forme di vita. La situazione precipita quando dei
cacciatori di pelli occidentali vengono a contatto con la piccola comunità,
bramosi di appropriarsi delle pellicce che per gli indigeni sono fondamentali
per la sopravvivenza, per loro solo fonte di guadagno. Gli unici a salvarsi
dalla strage perpetrata dai bianchi, sono un bambino e la nonna che si
trovavano su una piccola isola, incaricati di essiccare carne e pesce per tutta
la tribù. Ma anche il loro destino a questo punto è segnato: la vita è
possibile solo all’interno della comunità.
Il
romanzo affronta con efficacia, anche se talvolta in modo scoperto, il tema dei
guasti che la contaminazione della cultura occidentale ed in particolare
l’avidità di sfruttare le ricchezze
provocano alle civiltà più deboli, che vengono
cancellate senza esitazione. Interessante è notare come venga continuamente
sottolineato che, pur nella precarietà della loro esistenza, totalmente
dipendente dalla caccia e dalla pesca, queste popolazioni “primitive” manifestano una
evidente superiorità morale nel rispetto degli animali e dei membri più deboli
della comunità in confronto ai “progrediti” occidentali.
Francesca