Il titolo del breve romanzo rimanda esplicitamente alla
tradizione ebraica di cibarsi di erbe amare e pane azimo in occasione della
Pasqua. In forma autobiografica viene descritto il destino tragico di una
famiglia di ebrei olandesi negli anni dell’occupazione tedesca. Emblematica, per molti aspetti, la figura del
padre che non capisce, o non vuole capire, quanto sta avvenendo e fino all’ultimo
si rifiuta di guardare in faccia la realtà.
Centrale è la vicenda della narratrice, l’unica sopravvissuta della
famiglia che tra pregiudizi antisemiti e più o meno generosa ospitalità, riesce
a sfuggire alla deportazione.
Il racconto è scritto con uno stile semplice, “oggettivo”,
senza alcun cedimento al sentimentale e al compassionevole e questo dà maggior forza all’orrore che viene
descritto.
Questo romanzo benché forse meno riuscito dal punto di vista
letterario, rispetto a “La caduta”, resta tuttavia un intenso documento di un periodo tragico della
nostra storia recente che si spera non debba ripetersi.
Renato e Francesca
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