lunedì 13 ottobre 2014

José Ortega y Gasset, Miseria y esplendor de la traducciòn, Granada 1980

La maggior parte di noi solitamente legge in traduzione. Può quindi non essere del tutto inutile qualche riflessione sull’attività del tradurre. Come dice giustamente Ortega, tradurre da una lingua in un’altra in realtà è impossibile. È impossibile perché, come già aveva detto W. von Humboldt, ogni lingua è espressione di un mondo a sé, è lo specchio di una particolare concezione del mondo. Giusto per fare un esempio: in alcuni dialetti Bantù ci sono più di 24 segni classificatori di contro ai nostri due generi, maschile e femminile (tre, se si aggiunge il neutro), a seconda che si tratti di esseri animati o inanimati, di alberi alti o bassi, ecc. Le difficoltà naturalmente aumentano coll’aumentare della distanza culturale tra i popoli e le loro lingue, ma non vengono meno neppure tra lingue vicine, soprattutto quando si tratta di opere poetiche. Tanto più che non vi è mai reale corrispondenza tra un vocabolo, un concetto espresso in una lingua e il “corrispettivo” vocabolo espresso in un’altra. Insomma tradurre è un’attività utopica, ma si tratta di un’utopia buona, perché consapevole dei limiti invalicabili dell’impresa (Ortega distingue tra un’utopia buona e un’utopia cattiva, quella che non vuole fare i conti con la realtà). Tuttavia la traduzione ha una funzione importantissima ed è un’attività estremamente complessa, perché deve sforzarsi di trovare un irraggiungibile equilibrio tra la fedeltà all’originale, al suo stile, alla sua forma, e la leggibilità della lingua nella quale si traduce. Insomma, quando è possibile, è meglio leggere in originale.

Renato

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