La maggior parte di noi solitamente
legge in traduzione. Può quindi non essere del tutto inutile qualche
riflessione sull’attività del tradurre. Come dice giustamente Ortega, tradurre
da una lingua in un’altra in realtà è impossibile. È impossibile perché, come
già aveva detto W. von Humboldt, ogni lingua è espressione di un mondo a sé, è
lo specchio di una particolare concezione del mondo. Giusto per fare un
esempio: in alcuni dialetti Bantù ci sono più di 24 segni classificatori di
contro ai nostri due generi, maschile e femminile (tre, se si aggiunge il
neutro), a seconda che si tratti di esseri animati o inanimati, di alberi alti
o bassi, ecc. Le difficoltà naturalmente aumentano coll’aumentare della
distanza culturale tra i popoli e le loro lingue, ma non vengono meno neppure
tra lingue vicine, soprattutto quando si tratta di opere poetiche. Tanto più
che non vi è mai reale corrispondenza tra un vocabolo, un concetto espresso in
una lingua e il “corrispettivo” vocabolo espresso in un’altra. Insomma tradurre
è un’attività utopica, ma si tratta di un’utopia buona, perché consapevole dei
limiti invalicabili dell’impresa (Ortega distingue tra un’utopia buona e
un’utopia cattiva, quella che non vuole fare i conti con la realtà). Tuttavia
la traduzione ha una funzione importantissima ed è un’attività estremamente
complessa, perché deve sforzarsi di trovare un irraggiungibile equilibrio tra
la fedeltà all’originale, al suo stile, alla sua forma, e la leggibilità della
lingua nella quale si traduce. Insomma, quando è possibile, è meglio leggere in
originale.
Renato
Nessun commento:
Posta un commento